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  1. #include <stdio.h>
  2. /*Samuele Ranieri 1SC*/
  3. int main(void) {char car_letto, car_scelto='.';
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Success #stdin #stdout 0s 5288KB
stdin
Narrami l’uomo d’ingegno molteplice, o Musa, che tanto
errò, poi che distrusse la rocca di Troia divina,
vide molte città, di molti uomini l’indole seppe,
e assai patí pel mare, cercando com’egli e i compagni
salva potesser la vita serbare, e tornare alla patria.
Folli! Vorarono i bovi del Sol ch’alto valica; e il Nume
contese ad essi il dí del ritorno. O Dea, figlia di Giove,
donde che sia movendo, tu narra anche a me questi eventi.
     Già tutti quelli che aveano sfuggita la sorte funesta,
erano in patria, lontani dal pelago omai, dalla guerra.
Lui sol, che rivedere bramava la patria e la sposa,
Calipso trattenea nei fulgidi spechi, la Diva,
la veneranda Ninfa, perché lo bramava suo sposo.
Ma quando poi, col volger degli anni, fu giunto anche il tempo
ch’egli dovea, per decreto dei Numi, tornare alla terra
d’Itaca, neppur qui, neppur fra gli amici, i travagli
giunse a sfuggire. — Pietà sentivan di lui tutti i Numi,
tranne Posídone; questi serbava immutabile sdegno
contro il divino Ulisse, pria ch’egli giungesse alla patria.

Ma degli Etíopi questi gito era alle terre lontane —
sono le genti estreme del mondo, in due zone divisi,
gli uni ove il sol s’immerge nel pelago, gli altri ove sorge —
dove di agnelli e di tori gli offrivano sacre ecatombi.
Quivi, assistendo al convito, godevasi; e stavano gli altri
Dei, nella reggia accolti di Giove signore d’Olimpo.
Or, cosí prese a dire degli uomini il padre e dei Numi,
poi che gli risovvenne del nobile Egisto, cui morte
inflitto aveva Oreste, figliuol d’Agamènnone illustre.
Dunque, pensando a quello, fra i Numi cosí prese a dire:
«Ahimè, come i mortali dàn sempre la colpa ai Celesti!
Dicono che da noi provengono i mali; ma invece
essi, coi loro peccati, li attirano, in onta al destino.
Come ora Egisto: sedusse la sposa del figlio d’Atreo,
contro al destino, e lo sposo sgozzò che tornava, sebbene
la sorte sua sapesse: ché noi l’avevamo ammonito.
Ermète a lui mandando, il vigile d’Argo uccisore,
di non uccider l’eroe, né ambir la sua sposa; ché Oreste,
d’Agamènnone figlio, farebbe vendetta del padre,
quando, cresciuto, desío lo pungesse dal suolo paterno.
Cosí gli disse Ermete; né giunse a convincere Egisto,
per quanto egli il suo bene cercasse; ed or tutto ha scontato».
     E a lui cosí rispose la Diva dagli occhi azzurrini:
«O padre nostro Croníde, supremo fra tutti i Celesti,
ben meritata fu la pena a cui quegli soggiacque:
muoia cosí, chiunque si macchia di simili colpe.
Ma mi si spezza il cuore, pensando al saggissimo Ulisse,
misero, che dagli amici lontano, si strugge di doglia,
in mezzo al mare, in un’isola, ov’è l’umbilico del ponto.
Fitta è quell’isola d’alberi; e quivi una Diva soggiorna

nella sua casa: la figlia d’Atlante, nemico dei Numi,
che tutti sa del mare gli abissi, che regge i pilastri
alti, che l’un dall’altro dividono il cielo e la terra.
La figlia sua trattiene quel gramo che sempre si lagna,
e di molcirlo tenta con molli, con blande parole,
se mai d’Itaca farlo potesse oblioso. Ma Ulisse
vorrebbe anche il sol fumo vedere che sbalza dai tetti
della sua terra, e morire. Ma questo, o Signore d’Olimpo,
punto il cuor tuo non commuove. Nell’ampie di Troia pianure,
presso le navi argive, non t’erano forse gradite
le sacre offerte d’Ulisse? Con lui perché tanto ti crucci?»
     E a lei rispose il figlio di Crono che i nugoli aduna:
«Quale parola, o figlia, t’uscí dalla chiostra dei denti?
Come dimenticarmi potrò mai d’Ulisse divino,
che tutti quanti avanza per senno i mortali, ed offerte
fe’ piú che ogni altro, agli Dei sempiterni, signori dei cielo?
Ma il Dio che cinge la terra, Posídone, eterno corruccio
serba nel cuor, pel Ciclópe, che Ulisse fe’ privo dell’occhio
per Polifemo divino, che tutti vinceva i Ciclopi
di gagliardia. La vita gli diede la Ninfa Toòsa,
figlia di Fòrcine, re del mare che mai non si miete,
che con Posídone in cave spelonche si strinse d’amore.
Non gli dà morte; ma lungi vagare lo fa dalla patria.
Ora, su via, tutti, quanti siam qui, provvediamo che Ulisse
possa tornare alla patria. Deporre Posídone l’ira
dovrà: ché non potrà, contrastando al volere di tutti,
venire a lotta, ei solo, con tutti i Beati del cielo».
     E a lui cosí rispose la Diva dagli occhi azzurrini:
«O padre nostro, figliuolo di Crono, supremo Signore,
se veramente adesso gradiscono i Numi beati

che Ulisse, mente scaltra, ritorni alla terra nativa,
su via, si mandi Ermète che l’anime guida, argicida,
giú nell’isola Ogigia, ch’ei subito dica alla Ninfa
dalle ricciute chiome, ch’è nostro immutabil consiglio
che deve Ulisse, cuore tenace, tornare alla patria.
Ed io, frattanto, ad Itaca andrò: ché spronare suo figlio
vo’ piú che prima, in seno gli voglio spirare ardimento,
che chiami a parlamento gli Achei dalle chiome prolisse,
e a tutti i Proci opponga divieto che sempre le pingui
greggi gli sgozzino, e i tardi giovenchi dai corni ricurvi;
e poi lo invierò a Sparta ed a Pilo sabbiosa,
perché notizie chiegga, se mai possa averne, del padre,
e tra le genti possa lodato suonare il suo nome».
     Come ebbe detto ciò, si legò sotto i piedi i calzari
d’oro, fragranti, belli, che lei sopra l’umido gorgo
e sulle terra portavano, insieme agli spiri del vento;
e l’asta salda impugnò, con la lucida cuspide aguzza,
grande pesante massiccia, con cui dei guerrieri le schiere
prostra, quando ira la vince, la figlia di Giove possente.
     E da le vette d’Olimpo giú precipitò con un balzo,
e tra le genti d’Itaca stette, al vestibol d’Ulisse,
sovra la soglia de l’aula, stringendo la lancia di bronzo,
simil d’aspetto all’ospite Mèntore, sire dei Tafí.
E trovò dunque i Proci magnifici. Stavano appunto
li, dinanzi alla porta, godendosi al giuoco dei dadi,
seduti sopra pelli di bovi che avevano uccisi.
E banditori ad essi d’attorno; e gli svelti valletti,
questi mescevano il vino con l’acqua negli ampi cratèri,
quelli tergean con le spugne dai mille forami le mense,
e le ponean loro innanzi: tagliavano scalchi le carni.

Assai prima d’ogni altro, Telemaco simile ai Numi,
la vide; ché sedeva, col cuore in angoscia, fra i Proci,
l’immagine del padre con l’occhio dell’alma fissando,
se mai giungesse, e i Proci sperdesse lontan dalla casa,
sí che, lucrando onore, tornasse signor dei suoi tetti.
Pensava a ciò, seduto fra i Proci; ed Atena gli apparve;
ond’ei súbito all’atrio si spinse; ché in cuor gli pesava
sopra la soglia lasciare un ospite a lungo. Vicino
le andò, per man la prese, le tolse la lancia di bronzo,
e, a lei rivolto, il volo diresse di tali parole:
«Ospite, salve! Sarai fra noi benvenuto. Or ti ciba,
e dopo il pranzo dirai qual causa fra noi ti conduce».
     Dentro, com’ebbe ciò detto, l’addusse; ed Atena seguiva.
E quando furon giunti cosí dentro l’alta magione,
quivi la lancia depose vicino a un’eccelsa colonna,
dentro l’astiera bella, lucente, dov’eran poggiate
molte altre lance d’Ulisse divino dal cuore tenace.
E lei condusse, e fece sedere in un fulgido trono,
stesovi un drappo: e v’era, sostegno dei pie’, lo sgabello;
ed una seggiola varia d’intarsi da presso le pose,
lungi dai Proci, perché lo straniero, crucciato dal chiasso,
non fastidisse il pranzo, fra quei tracotanti signori,
e per potergli domande rivolger sul padre lontano.
Ed acqua una fantesca recata in un’aurea brocca,
bella, e sott’essa un bacino d’argento, versava il lavacro
sopra le mani. Poscia distese una tavola liscia.
E recò pani, sul desco li pose la degna ministra,
e molti cibi, offrendo di quanto ella avea, quivi aggiunse.
Quindi lo scalco portò d’ogni specie le carni imbandite
sopra guantiere, e presso ciascun, pose un calice d’oro;

ed un araldo su e giú correva, per mescere vino.
Ecco, e arrivarono i Proci magnifici. E subito in fila
si posero a sedere via via sopra i troni ed i seggi.
Sovra le mani l’acqua versavano ad essi gli araldi,
entro i canestri, a mucchi, le ancelle ponevano il pane,
entro i crateri i valletti tempravano l’acqua col vino;
e sopra i cibi imbanditi gittavano quelli le mani.
Poi, quando ebber sedata la brama del cibo e del vino,
ad altra cura allora si volse la mente dei Proci:
al canto ed alla danza, che sono ornamento al banchetto.
Quindi un araldo porse la cetra bellissima a Femio,
che per i Proci soleva cantare, costrettovi a forza.
Questi preludiò, cominciò dolcemente a cantare.
E allora disse il figlio d’Ulisse ad Atena, a lei presso
facendosi col viso, perché non udissero gli altri:
«Ospite caro, vorrai spiacerti di ciò ch’io ti dico?
A questa gente importa la cetera e il canto; e s’intende:
ché, senza scotto pagare, divorano i beni d’un altro:
d’un uomo onde ora l’ossa marciscono bianche alla pioggia
sopra la terra, oppure le voltola il flutto del mare:
ché se tornar lo vedessero in Itaca, tutti di certo
implorerebber dai Numi piuttosto sveltezza di gambe,
non già di vesti e d’oro dovizia opulenta. Ma ora
quegli al suo tristo destino soggiacque; né alcuna speranza
piú ci riscalda il cuore, se pure qualcuno ci dice
ch’egli farà ritorno. Per lui non è scritto il ritorno.
Ma dimmi questo adesso, rispondimi senza mentire:
chi sei? di quale gente? qual’è la tua terra e il tuo sangue?
sopra quale naviglio sei giunto? com’è che i nocchieri
t’hanno condotto ad Itaca? ed essi chi sono? ché a piedi

non crederò davvero che tu sia fra noi pervenuto.
E il vero anche di questo, rispondi: ch’io voglio saperlo:
se qui la prima volta giungi ora, o se tu di mio padre
ospite sei: ché la casa d’Ulisse piú d’uno conosce:
perché soleva anch’egli pel mondo vagar fra la gente».
     E gli rispose Atena, la Dea dalla glauca pupilla:
«E dunque, anche io ti vo’ parlare, ed il vero vo’ dirti.
Sono signore dei Tafi, che volgono ai remi le cure:
Mente sono io, son figlio d’Anchialo senno divino.
Ed ora, col mio legno son qui, coi compagni, diretto,
sopra il purpureo mare, a genti di barbara lingua,
bronzo cercando, a Temèse; ed io reco lucido ferro.
Il mio naviglio è quello laggiú per i campi, lontano
dalla città, sotto il Neio selvoso, nel porto Reètro.
Ospiti siamo tu ed io, da parte del padre e dell’avo,
da tempo antico; e puoi saperlo dal vecchio Laerte,
se lo domandi a lui: ché lungi, mi dicono, vive
dalla città, nei campi, facendo una vita di stenti,
con una vecchia ancella, che bere e mangiare gli appresta,
allor che la stanchezza gli vince le antiche ginocchia:
ch’egli si stràscica sempre pei clivi coperti di viti.
Io, poi, son qui disceso, perché dire udii che tuo padre
era tornato; ma invece la via gli precludono i Numi.
Ché non è morto Ulisse, sparito non è dalla terra;
ma trattenuto è, vivo tuttora, nel mare infinito,
sopra le balze remote d’un’isola: contro sua voglia
è trattenuto lí, da genti crudeli e selvagge.
Ora un pronostico fare ti voglio, che i Numi del cielo
a me gittano in cuore, che compiersi, credo, si deve,
per quanto né profeta, né sperto d’auguri mi sono.

Non resterà piú a lungo tuo padre lontan dalla patria,
né pur se stretto fosse fra ceppi di ferro. Ed il modo
ben troverà di tornare: ché astuzie a dovizia possiede.
Ma dimmi questo, adesso, rispondimi senza menzogna:
se tu, giovin prestante qual sei, sei figliuolo d’Ulisse:
ché a lui mirabilmente somigli nel volto e negli occhi.
Ben lo conosco: ché spesso con lui mi solevo trovare,
prima che verso Troia salpasse, ove mossero quanti
eran piú prodi Argivi, sovresse le concave navi;
Ulisse da quel dí piú non vidi, né me vide Ulisse».
     E a lei queste parole rispose Telemaco scaltro:
«Ospite, ed io parlerò, senza nulla detorcer dal vero.
Dice la madre mia ch’io sono figliuolo d’Ulisse:
io per me non lo so: ché niuno conosce suo padre.
Deh!, cosí, fossi, invece, figliuolo d’un uom fortunato,
quale pur sia, che toccasse vecchiezza godendo i suoi beni!
Ora del piú disgraziato fra quanti son nati a morire,
di lui dicono ch’io son figlio, giacché vuoi saperlo».
     E a lui rispose Atena, la Diva ch’à glauche le ciglia:
«No, che non t’hanno fatto discender gli Dei da una stirpe
di poco nome, se tale Penèlope a luce ti diede.
Ma dimmi ancora questo, rispondimi senza menzogna:
questa festa che è? che è questa turba? convito
oppur nozze? Non è modesto banchetto d’amici.
Gente arrogante mi sembra, che nella tua casa banchetta,
a farti oltraggio e danno. Vedendo una tale sozzura,
ogni uom che senno avesse, dovria, qui giungendo, adirarsi».
     E a lei queste parole rispose Telemaco scaltro:
«Ospite, poi che queste domande mi volgi, e t’informi,

esser dovè questa casa da biasimo immune e opulenta,
quando tuttora qui vivea tra il suo popol quell’uomo.
Altro ora vollero i Numi, che a lui macchinarono il male,
sí ch’ei disparve; e di niuno si persero tanto le tracce.
Ché tanto non sarebbe, s’ei fosse pur morto, il mio cruccio,
se fra i compagni suoi cadea, combattendo i Troiani,
o fra le man’ degli amici, poi ch’ebbe compiuta la guerra.
Tutti gli Achivi allora gli avrebbero alzata una tomba,
ed alta gloria avrebbe lasciato alla moglie ed al figlio.
Invece, senza gloria via l’hanno rapito le Arpíe:
niuno l’ha visto, niuno sa nulla, lamenti ed ambasce
ei m’ha lasciato. Né solo per lui mi lamento o mi cruccio:
d’altri cocenti affanni mi vollero oppresso i Celesti.
Perché quanti signori governan queste isole intorno,
Same, Dulichio, Zacinto coperta di selve; e i signori
tutti, ch’ànno in possesso le balze d’Itaca alpestre,
sposa pretendono avere mia madre, e distrugger la casa.
Essa le nozze odiose respinger non sa; né s’induce
pure a compirle. Frattanto divoran, distruggono quelli
la casa mia; ché presto me pure vorranno distrutto».
     E a lui, piena di cruccio, cosí disse Pallade Atena:
«Ahimè, davvero avresti bisogno che Ulisse tornasse,
che i Proci svergognati venisse a punir di sua mano.
Ché s’egli in questa casa giungesse, se sopra la soglia
stesse, impugnando una scure, lo scudo e i suoi due giavellotti,
tale tuttora, quale io la prima volta lo vidi
fra le mie mura, che vino beveva, e godeva il banchetto —
d’Efeso egli tornava, da Ilo, di Mèrmero figlio:
ché giunto era anche qui, tuo padre, sul legno veloce,

a ricercare un veleno mortale, ché averlo voleva
per attoscare le frecce foggiate dal bronzo; ma quegli
non glie ne dié, ché aveva timore dei Numi immortali;
mio padre glie ne dié, ché aveva per lui troppo affetto —;
se, tale ancora essendo, Ulisse giungesse fra i Proci,
nozze dovrebbero amare godersi, e una súbita morte.
Però su le ginocchia dei Numi riposa il futuro,
se mai farà ritorno per trarre vendetta dei Proci,
se mai non tornerà. Ma intanto, io t’esorto a pensare
come da casa tua tu possa cacciar quei superbi.
Dunque intendimi, bene, fa’ tutto come ora io ti dico.
A parlamento chiama domani su l’alba gli Achei,
e parla a tutti quanti, che sian testimoni i Celesti.
Ai Proci ingiungi che via si sperdano, ognuno ai suoi beni;
ed a tua madre, se il cuore la induce, che scelga uno sposo,
che dalla casa vada lontano del prode tuo padre.
E quelli appresteranno le nozze, offriranno regali
molti, quanti a una figlia diletta darebbe suo padre.
Ed un consiglio a te porgerò, se ascolto vuoi darmi.
Di venti remi un legno prepara, qual sia piú veloce,
e muovi a dimandare notizie del padre lontano,
se da qualche uomo averne potessi, o ascoltare un responso
di Giove, onde ai mortali la fama piú ampia s’effonde.
Volgiti prima a Pilo, dimandane a Nestore divo;
di là, récati al biondo Menelao, sovrano di Sparta,
ch’ultimo ritornò fra gli Achèi loricati di bronzo.
Se di tuo padre avrai notizia, che vive e che torna,
resta, ed attendi ancora, sia pure fra i crucci, un altro anno;
ma se ti dicono invece che spento è, che piú non esiste,

allora alla paterna tua terra diletta ritorna,
levagli un tumulo, rendigli estreme onoranze solenni,
come ad un re si conviene. Poi scegli a tua madre uno sposo.
E quando tutto ciò tu abbia provvisto e compiuto,
tempo sarà che vada volgendo nel seno e nel cuore
come nella tua casa provveda alla morte dei Proci,
sia con l’inganno, sia con atti palesi. Con ciance
piú trastullar non ti devi, ché a te l’età tua nol consente.
Non odi forse Oreste divino, che fama ha lucrata
presso le genti tutte, poiché diede morte ad Egisto,
il tessitor d’inganni che l’inclito padre gli uccise?
Ed anche tu, mio caro, sí grande ti veggo e sí bello,
móstrati prode, sicché dei posteri alcuno ti esalti.
Ma fare io devo adesso ritorno alla rapida nave,
ed ai compagni che male sopportan l’indugio mio lungo.
Tu provvedi ai tuoi casi, considera ciò che t’ho detto».
     E a lei queste parole rispose Telemaco scaltro:
«Ospite, tu mi rivolgi parole che ispira l’affetto,
come a suo figlio un padre; né mai m’usciranno di mente.
Ma su, rimani adesso, per grande che sia la tua fretta,
sí che tu faccia un bagno, che possa allegrare il tuo cuore,
ed alla nave lieto ritorni, recandovi un dono,
bello, d’eccelso pregio, che tu per ricordo mio serbi,
come l’usanza vuole che l’ospite all’ospite porga».
     E gli rispose cosí la Diva dagli occhi azzurrini:
«Non trattenermi, ché assai del viaggio mi spinge la brama;
e il dono che l’amico tuo cuor ti consiglia di darmi,
me lo darai, che a casa lo porti, quando io qui ritorno.
Sceglilo bello assai, ché n’avrai ben degno ricambio».

     Cosí disse; e partí la Diva dagli occhi azzurrini.
Volò, ché forma assunse d’augello; e a Telemaco in seno
forza e fiducia ispirò, piú vivo il ricordo gli rese
del padre suo, che prima non fosse; e fra sé ripensando,
pieno fu di stupore: ché intese che quello era un Nume.
E subito tornò quel giovin divino fra i Proci.
     Stava l’insigne vate fra i proci cantando; e in silenzio
quelli ascoltavan seduti. Cantava il ritorno che Atena
Pallade inflisse agli Achivi, da Troia, funesto di lutti.
Ed ecco, udí dall’alto la voce divina del vate
d’Inaco la figliuola, Penèlope piena di senno,
e dalle stanze eccelse discese dell’alto palagio,
sola non già, ché due seguivano ancelle i suoi passi.
E poi che quella donna divina fu giunta fra i Proci,
stie’ de l’adorna sala vicino ai pilastri, alla soglia,
schermo facendo alle guance del morbido velo; e le ancelle
modeste accanto a lei restarono, a entrambi i suoi fianch.
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